Muretti a secco diventano Patrimonio dell’Umanità Unesco. Un riconoscimento per l’Italia e altri Paesi europei.
I muretti a secco sono stati dichiarati dall’Unesco Patrimonio immateriale dell’Umanità. Più che ad un luogo specifico, il riconoscimento è attribuito ad un’attività, o meglio un’arte e pratica rurale, quella consistente nella realizzazione di questi muri, con pietre e blocchi di pietre, senza utilizzo di malta o altri leganti, da qui viene la definizione “a secco”. Un’attività antichissima, che porta con sé tutta una cultura e una tradizione.
“L’Arte dei muretti a secco” entra nella lista degli elementi immateriali dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. L’annuncio è arrivato il 28 novembre, via Twitter, dal profilo della stessa Unesco. Un ottimo risultato per l’Italia che, insieme ad altri Paesi mediterranei più la Svizzera, si aggiudica l’ambito riconoscimento. Sono otto in tutto i Paesi europei che avevano presentato la candidatura e hanno ottenuto il Patrimonio dell’Umanità per beni immateriali relativo all’arte e alla tradizione del muretto a secco e con i quali l’Unesco si è congratulata: Italia, Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Slovenia, Spagna e Svizzera.
Il muretto a secco è un manufatto presente in tutte le culture del mondo fin dall’antichità. I nuraghi della Sardegna sono costruiti con pietre a secco, così come le mura delle città più antiche, realizzate con enormi blocchi di pietra. Gli antichi greci e poi i romani costruivano muri a secco, perché erano economici e facili da realizzare. Anche i celti per proteggere i loro insediamenti costruivano quel muro, con blocchi di pietre, che Giulio Cesare chiamò murus gallicus. Anche le famose piramidi a gradoni dell’America Latina sono state edificate con questa tecnica, assemblando senza leganti enormi blocchi di pietra.
I muretti a secco li troviamo per le campagne e montagne italiane, in particolare tra gli uliveti in Salento e lungo i sentieri delle Cinque Terre, ma anche in Campania, sui sentieri della Costiera Amalfitana e del Cilento, alle Isole Eolie e in Alto Adige. Con la tecnica a secco sono stati realizzati anche i trulli di Alberobello.
Per la loro praticità ed economicità vengono ancora costruiti in Grecia e nei Paesi balcanici, non a caso tra i Paesi che hanno ottenuto il riconoscimento Unesco.
“L’arte del Dry stone walling – come viene chiamata in inglese – riguarda tutte le conoscenze collegate alla costruzione di strutture di pietra ammassando le pietre una sull’altra, non usando alcun altro elemento tranne, a volte, terra secco”, spiega l’Unesco nella motivazione del provvedimento. Si tratta di uno dei primi esempi di manifattura umana ed è presente in quasi tutte le regioni italiane, sia per fini abitativi che per scopi collegati all’agricoltura, in particolare per i terrazzamenti necessari alle coltivazioni in zone particolarmente scoscese. Come, appunto, alle Cinque Terre, ma non solo.
“Le strutture a secco sono sempre fatte in perfetta armonia con l’ambiente – continua l’Unesco – e la tecnica esemplifica una relazione armoniosa fra l’uomo e la natura. La pratica viene trasmessa principalmente attraverso l’applicazione pratica adattata alle particolari condizioni di ogni luogo” in cui viene utilizzata. Inoltre, i muri a secco “svolgono un ruolo vitale nella prevenzione delle frane, delle alluvioni, delle valanghe, nel combattere l’erosione e la desertificazione delle terre, migliorando la biodiversità e creando le migliori condizioni microclimatiche per l’agricoltura”.
Per la seconda volta l’Unesco riconosce come patrimonio culturale immateriale dell’Umanità una pratica agricola e rurale come quella dei muretti a secco. La prima volta era stato con la pratica tradizionale della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria. Sempre un riconoscimento all’Italia
Tra gli altri Patrimoni immateriali e culturali riconosciuti dall’Unesco all’Italia ci sono la dieta mediterranea, iscritta come primo elemento culturale al mondo a carattere alimentare nel 2010; come abbiamo detto la “coltivazione della vite ad alberello” di Pantelleria, nel 2014 e quello più recente, “l’arte del pizzaiuolo napoletano“, nel 2017.
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A cura di Valeria Bellagamba