“Siediti tu, no…ferma, non sederti sul muretto, prendi la mia sedia“. Sono queste le prime parole che Simbare, 20 anni del Mali, ci dice quando arriviamo all’oratorio, per intervistare lui e i suoi amici, in Italia da qualche mese. Gentilissimo, col sorriso lui e i suoi amici ci fanno subito posto attorno al tavolo dove stanno chiacchierando in attesa del nostro arrivo. Sono otto ragazzi giovanissimi, tutti tra i 18 e i 30 anni, parlano francese, inglese e un po’ di italiano: “Troppo poco, lo vorremmo imparare” dicono con voce insicura.
Sono 14 ragazzi che hanno deciso di scappare dal loro paese in guerra e venire in Italia a bordo di un barcone. Ci sono questi figli dell’Africa, con i loro occhi scuri che si imbarazzano a parlare delle loro storie, che non riescono a comunicare a pieno tutta la voglia che hanno di lavorare e di avere dei soldi da poter mandare alle 6 sorelline che hanno lasciato a casa, o alla mamma, o al papà che è là…in mezzo alla guerra.
Buda ha 18 anni, una maglietta grigia e ride solo quando Don Antonello lo prende bonariamente in giro sul suo vero nome che in Mali è comune, ma in Italia è meglio non usare troppo. E così ha deciso di chiamarsi Buda e lo dice col sorriso, ridacchiando fra sé e sé. Hassai Ismael ha 22 anni invece è del Sudan e ha studiato per nove anni quando era a casa, parla arabo, inglese e un po’ di italiano. Quando gli chiedo che materia gli piaceva a scuola mi guarda e mi risponde che ha studiato tanto, che gli piaceva tutto e che è contento che le sue sorelle siano ancora sui banchi di scuola.
Gli chiedo come è stata la traversata per arrivare in Italia e si vede che non amano molto parlarne, Simbare è l’unico che prende la parola: “E’ stata dura, un viaggio veramente brutto e anche se è durato poco è stato molto faticoso“. Non dicono altro, ma si vede dal loro sguardo che stanno ricordando dei momenti difficili: “Siamo arrivati in Sicilia dopo 4 giorni e poi, altri cinque sono serviti per arrivare fino ad Imperia”. Simbare infatti è arrivato luglio scorso a Genova Pegli a bordo della Alpine Loyalty dopo essere stato salvato dai militari italiani dal suo peschereccio che stava affondando al largo di Capo Passera.
Sidibe invece ci guarda fisso, con la testa sui pugni chiusi, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Dopo una chiacchierata al telefono si è seduto davanti a noi e ha ascoltato molto prima di intervenire. Ha 24 anni e arriva dalla Costa D’Avorio: “Lavoro…ecco cosa vorremmo fare qui in Italia, lavorare. Qui ci sentiamo come a casa, Don Antonello è tutto per noi è una persona splendida, ma ogni tanto ci annoiamo. Vorremmo tantissimo lavorare”. Ripete la parola “travailler”, lavorare, molte, moltissime volte, come una cantilena e con lui gli altri ragazzi annuiscono e mormorano parole di consenso.
Già, perchè per chi è in attesa del permesso di soggiorno, ma anche per chi questo tanto atteso pezzo di carta lo ha già, lavorare almeno per un anno è praticamente impossibile. E tutto per via della burocrazia che per sei mesi li blocca completamente: “Anche se qualcuno volesse insegnargli un mestiere, non è possibile perchè se disgraziatamente qualcuno si fa male non c’è assicurazione che li possa coprire” spiega Don Antonello.
“C’è qualche lavoro che vi piacerebbe fare?” “Va bene tutto” rispondono e io incalzo “Sì, ma se vi dicessi di sognare di scegliere la cosa che vorreste fare di più…” e ancora una volta la risposta è la stessa: “Travailler“, lavorare.
Arrivano dopo, a chiacchierata quasi conclusa anche Khaled e Ailtaev del Pakistan con una grande umiltà si siedono e ascoltano, non intervengono quasi mai, ma sorridono e quando gli chiediamo la loro età, consci di avere qualche problema con la lingua ce lo scrivono sul cellulare: Khaled ha 36 anni, Ailtaev 25 e anche loro sono a casa di Don Antonello in attesa di poter lavorare.
“Volete restare in Italia?“ chiediamo e loro rispondono di sì, che il nostro paese gli piace: “Sono tutti così gentili – ci dice Sidibe – Non abbiamo mai avuto problemi da quando siamo qui! Si sta benissimo“.