Ma attenzione la felicita’ qui non e’ la realizzazione dei desideri che culliamo da qualche tempo nella nostra testa, ne’ tantomeno di quelli piu’ nascosti. No, qui la felicita’ e’ arrivare nel sospirato albergue, sedersi, bere qualcosa di fresco e parlare con qualcuno che ti sorride. Tutto qui. Minuti di una semplicita’ immane, che mai nel corso della nostra vita ci siamo mai sognati di chiamare ‘felicita’. Invece qui lo sono. E dovrebbero esserlo anche altrove.
Un cammino duro e spietato, che ti fa piangere, e non solo perche’ sei incredibilmente stanco e le gambe gridano pieta’. Piangi cosi’ e non sai nemmeno tu bene il perche’. Forse perche’ ti trovi solo, nel bel mezzo di una collina assolata dove fanno almeno 40 gradi, con uno zaino da 6 kili sulle spalle e con la meta che dista ancora 10 km? O forse perche’ tutte le angosce di una vita vengono fuori passo dopo passo? In ogni caso le lacrime le devi asciugare e devi ripartire con tutta la forza che hai in corpo cercando di apprezzare la semplicita’ di minuti che ti regalano un piccolo sorriso.
Eccola qui la metafora dell’esistenza: il cammino e’ la vita, in cui soffri e ti disperi ma che al tempo stesso sa anche regalarti delle gioie. Tutto sta nel saperle vedere, riconoscere ed apprezzare queste gioie. E quando azzeri tutto il resto questo interscambio ti si manifesta davanti agli occhi con una chiarezza disarmante. Superare le difficolta’ per apprezzare un attimo di fondamentale ed irrinunciabile felicita’.
La giornata non e’ certo iniziata in stile pellegrina, ma piuttosto da ritardataria cronica seppur giustificatissima (almeno questa volta concedetemelo!). Dopo una notte passata a subire i movimenti gentili e delicati dell’uomo del letto di sotto che faceva ballare il letto a castello come una bandiera al vento, quando il pellegrino suddetto si alza, cado in un sonno profondo a cui nulla possono i rumori di un numero spropositato di pellegrini che chiudono zaini e prendono bastoni.
Alle 8 apro i miei occhi e con sgomento mi accorgo che l’albergue e’ vuoto!AAAHH! Fra poco mi chiudono dentro. Con abile balzo felino (concessione letteraria) mi catapulto dal letto, mi sistemo e corro alla ricerca di pellegrini. Ma sono tutti partiti! Non ce n’e’ piu’ uno in tutta Zubiri! Niente panico, camminero’ sola e poi senz’altro li raggiungero’. Prima pero’ colazione: senza caffe’ non carburo.
Di pellegrini invece non li incontro. O meglio, piano piano quelli che avevo raggiunto o che erano piu’ ritardatari di me, mi distanziano. Poco male. Ho il dolce rumore dell’acqua del fiume a farmi compagnia e ad indurmi in pensieri filosofici. ‘Ah com’e’ vero..tutto scorre..guarda li’ l’acqua, con il suo passaggio lentamente cambia forma al mondo ma senza violenza, senza dolore, senza portarsi appresso sofferenze ed ansie. Che invidia!’. E mentre immagino di essere acqua, di essere anch’io parte ne’ piu’ ne’ meno della natura, la stanchezza e un caldo asfissiante prendono il sopravvento. E con questi anche la tristezza. Che si gonfia piano piano e a differenza dell’acqua tranquilla del Rio della Navarra diventa un fiume in piena che esplode fragoroso. Lasciamo che sia. Perche’ dopo la tempesta, arriva sempre il sole. E qui di sole ce n’e’ in abbondanza.
Dopo aver conversato con coreani americani, con tedeschi (ed averci bevuto in compagnia una birra) finalmente si arriva a Pamplona. Dopo sette ore di marcia (con numerose soste) l’albergue e’ un miraggio cosi’ come il calore di persone conosciute da pochissimi giorni.
La sera di Pamplona e’ piena di locali e di divertimento. Ma per me, pellegrina dolorante nell’anima e nelle gambe (se conoscessi i nomi vi farei l’elenco dei muscoli che mi fanno male, ma un ‘tutti’ e’ piu’ sbrigativo), la notte sara’ breve. Giusto il tempo per una cena, un bicchiere di vino, un’ennesima sigaretta e per uno sguardo al cielo. Ieri c’erano le nubi a Zubiri e non ho visto alcuna stella, chissa’ se stasera qui a Pamplona sara’ diverso. Ma tanto le stelle brillano anche dietro i nuvoloni neri, vero?
Utreja!